Rabbia sì, rabbia no? Parliamone!

Sento già qualcuna/o dire: «E no, eh? Io quando vengo a curiosare su questo blog voglio respirare un attimo, magari anche ridere un po’. Non ho ancora capito se è iniziato l’autunno o l’inverno e tu mi parli di “rabbia”?».

Dammi un secondo e ti spiego perché ci tengo tanto ad affrontare l’argomento e ti prometto che, come tento di fare sempre, cercherò di allontanare ogni ombra di pesantezza dalle mie parole.

Rabbia

Perché proprio la rabbia?

Spesso nelle email di chi ha letto Safari, c’è un comune denominatore: la parte che tra le tante colpisce di più, è quella in cui Lisa si trova a Big Island (Hawaii).

Lì matura una sorta di trasformazione, dovuta ovviamente anche alla parte precedente del suo viaggio. E proprio lì si libera della rabbia repressa in tutti i suoi 37 anni di vita.

Perché accade proprio lì? Perché questa parte colpisce sempre tanto?

Devi sapere che a Big Island vive (perlomeno così racconta la leggenda e gli abitanti dell’isola che hanno avuto un incontro con lei) una dea, Pele.

Pele protegge il vulcano Kilauea ed è rappresentata come una donna furente, capricciosa. Una divinità che crea e distrugge.

E quando Pele ha i 5 minuti, cavoli se si arrabbia!

Il vulcano esplode, la lava sgorga copiosa e fuoriesce fino ad arrivare alle splendide scogliere a picco sul mare, gettandosi in acqua. Pensa allo spettacolo del fuoco nell’oceano!

E non si tratta solo di spettacolo. Quella lava accresce il territorio in metri quadrati e lo feconda in vegetazione. Una vegetazione che solo lì potrebbe crescere.

Ma insomma, Noemi, cosa vuoi dire?

Adesso ci arrivo. E lo faccio riportandoti fedelmente il pensiero di Lisa:

“Noi donne siamo abituate a provare vergogna quando siamo prese dall’ira. L’uomo, sì, lui può alterarsi, lui può urlare, può diventare un animale irascibile, perché è uomo, appunto. La donna, NO. La donna, se manifesta la rabbia, è isterica, la donna è vittima degli ormoni, incapace di mantenere il controllo. Il mito di Pele permette all’umanità di stravolgere questo pregiudizio. La collera, l’ira sono forze creatrici che, indirizzate nel modo giusto, possono creare la vita. La rabbia scioglie i blocchi, fa emergere i desideri più puri, rappresenta il risveglio, tira fuori la nostra creatività. È il nuovo, perciò non ha affatto valenza negativa e non va sporcato da questa concezione”.

La rivoluzionaria Pele

Quando studiavo la cultura hawaiana durante le ricerche per Safari, sono rimasta molto colpita dalla figura di Pele.

Per la prima volta il concetto di rabbia veniva associato a una figura femminile. E soprattutto l’approccio alla rabbia non era esclusivamente negativo ma addirittura positivo.

Nella vita ci sono vari tipi di rabbia.

C’è la rabbia narcisista, c’è la rabbia da delusione, c’è la rabbia dei bambini e con questa intendo anche di quelle persone che non sono più bambine e quella rabbia accumulata nell’infanzia le logora dentro.

Inoltre la rabbia si può manifestare in vari modi. C’è chi la tira fuori sbrodolando merda (scusa il francesismo) al primo che gli capita a tiro. C’è chi la tiene dentro di sé, non riesce a sfogarla e di solito fa seri danni al proprio fisico con ulcere & co.

Non è che chi sembra tutto carino e gentile non possa essere arrabbiato. A volte è più arrabbiata una persona così che una che si sfoga.

Quel che è certo è che entrambi gli approcci non vanno bene.

Chi “sputa fuori”, non ha rispetto della persona che usa come suo bersaglio, che spesso e volentieri non riesce neanche a capire che sta succedendo.

Chi “tiene dentro”, accumula una collera interiore che, prima o poi, fa danni gravissimi. Avvelena letteralmente il corpo e la mente.

E allora che si fa, disse chi vorrebbe mandare a fan…. certe personcine?

Bisogna capire come incanalare la rabbia, anche la rabbia furiosa, incontrollata, per poter sfruttare il potere creativo di questo sentimento.

Le virtù della rabbia

L’emozione della rabbia porta con sé un’enorme dose di energia che potrebbe essere sfruttata, per esempio, per far vincere la giustizia sull’ingiustizia.

In questi ultimi anni con l’invasione del “pensiero positivo”, del sorridere sempre, ci è stato detto che dobbiamo controllare la nostra mente. Che quando siamo arrabbiati, dovremmo andare in un posto tranquillo e trasformare la collera in compassione. Tutte cose che facciamo ogni volta che ci arrabbiamo, vero? Oh, non ne ho alcun dubbio!

Ti immagino in silenzio su un prato fiorito a meditare con gli occhi chiusi tanta compassione per chi ti ha rigato la macchina.

Io personalmente non ce la faccio. Anzi sinceramente credo che questo tipo di atteggiamento non faccia altro che portarci ad evitare la cosa.

Grazie alla pratica del Buddismo ho imparato che ogni cosa può essere trasformata da negativa a positiva, ma mica accade per miracolo!

C. immersa in un campo di margherite

Un meraviglioso atto di volontà

Ci vuole un atto di volontà, di presa di responsabilità.

Quella rabbia è mia e solo io ho il potere di cambiarla.

Come faccio? O perlomeno come tento di fare io?

La osservo. La accolgo e non la rifiuto.

Decido che da questa cosa posso imparare qualcos’altro e posso migliorare come persona.

Certo, non subito. Prima cerco di sfogarla.

Qualche volta prendo a pugni un cuscino. Qualche volta faccio una corsa. Qualche volta disegno o meglio faccio degli schizzi incomprensibili ascoltando i Nirvana. Qualche volta mi chiudo in macchina e urlo a squarciagola.

Insomma la butto fuori, non su una persona ché le persone non sono lo zerbino della mia vita. E anche perché fare quell’atto di violenza, perché di questo si tratta, non serve né a me, né all’altro.

Non è che sempre ci riesca, non sono perfetta, né lo è nessuno di noi.

Ma ho questa vita davanti e voglio viverla nel miglior modo possibile. E per far questo mi impegno a stare bene con me stessa e con le persone intorno a me, dall’edicolante a mia figlia, senza gerarchie di preferenze.

Ora, so che l’argomento non era dei più leggeri, ma mi auguro che la prossima volta che avrai voglia di urlare contro qualcuno, penserai a questo post. E nel ricordarti di me che disegno dei geroglifici ascoltando i Nirvana, senza trucco e parrucco da mamma in pubblicità, possa farti una bella risata.

E magari riflettere su come incanalare quella meravigliosa energia, che hai dentro, verso i tuoi sogni non ancora realizzati. E farne benzina per realizzarli.

Intervista a Francesca Di Pietro

Sono giorni che l’autunno bussa alla porta e lo fa con scrosci di pioggia.

Freddo gelido una mattina e caldo umido la mattina dopo. Roba che il cambio di stagione non so ancora se farlo o no.

Questo è il momento per me di mettere nuova legna sul fuoco e di solito la mia legna preferita è progettare un nuovo viaggio.

Forse per questo, forse perché l’ammiro molto, forse perché non riesco a resistere alla sua riccia chioma scarlatta, ho voluto fortemente intervistare la donna che ha fatto del viaggiare da soli la sua strada della vita, passando dal lavoro di psicologa a quella di travel-coach.

Lei si chiama Francesca Di Pietro, ha visitato 66 paesi, ha scritto un libro che risponde a molte domande sul viaggio in solitaria. Il tutto con una gran dose di ironia effervescente che è l’ingrediente magico per la vita di noi, animealcontrario.

Goditi l’intervista, entrate nel mondo di Francesca e tenetevi libere/i per i suoi progetti futuri.

Enjoy!

Francesca Di Pietro

N – Per rompere il ghiaccio, ci racconti chi è Francesca?

F – Wow! Quante ore hai perché ti risponda? Francesca è una ragazza molto riflessiva, o forse dovrei dire che si fa tante “pippe mentali” ed è per questo che sono brava a spezzettare, analizzare, meta leggere tutto! E ne ho fatto un lavoro.

N – Com’è che, ad un certo punto della tua vita, hai deciso di fare un salto quantico trasformando la tua professione di psicologa in travel coach?

F – Ho ascoltato quello che mi dicevano tutti: “devi fare la psicologa dei viaggi”. Ecco l’ho fatto! Prima mi occupavo di formazione comportamentale dell’adulto, diciamo che continuo a farlo. Ma ho cambiato il luogo ed invece che rendere una persona migliore nel lavoro mi piace pensare che la rendo migliore nella vita.

Francesca Di Pietro
Francesca a Broken Sea (Nusa Penida)

La figura del Travel Coach

N – A proposito, cos’è un travel coach e perché può fare la differenza nell’organizzazione di un viaggio in solitaria?

Il travel coaching è una metodologia che trasforma il viaggio in un processo di crescita. Quando viaggiamo da soli è tutto amplificato, ogni sensazione e ogni emozione è più forte. Noi siamo nudi e come tali più propensi al cambiamento perché non abbiamo appigli, porti o alibi ai quali appoggiarci.

F – Se ti fa piacere, raccontaci quella storia di tua nonna che attraversò le Ande nel 1911 e del tuo legame con questo evento.

Certo che te lo racconto, ci ho anche scritto un post! La storia parte dai miei capelli, io sono rossa, la mia famiglia è molto mediterranea. Sono nata a Napoli ed ero diciamo l’unica rossa, il che non ti rende l’adolescenza una cosa facile. Quando da bambina chiesi come mai io non assomigliavo ai miei genitori e a differenza di loro ero molto chiara, mi risposero che avevo preso dalla Nonna Nina, che poi sarebbe la mia bisnonna. Così mi sono appassionata alla storia e ho iniziato a chiedere informazioni a quelli che l’avevano conosciuta. Risulta che io abbia preso di lei tante cose, che ci muoviamo uguale, che abbiamo lo stesso approccio alla vita e le stesse manie. Lei nel 1911 è andata sulle Ande con il marito a cavallo per 4 anni. Così 100 anni dopo ho fatto lo stesso, non a cavallo e senza marito, ma con lei nel cuore.

Progetti futuri

N – Sono curiosa. Cos’hai in progetto per i prossimi mesi?

F – Praticamente devo fare più giri adesso che sono di base a Roma che quando sono in viaggio. Dal 25 al 27 Novembre sarò all’ Eremito per il mio workshop sul travel coaching. È l’8° edizione e ho già tantissime prenotazioni. Poi credo che per capodanno volerò in Sudafrica per la 3° volta consecutiva. Purtroppo ho promesso che avrei voluto vedere il paese in estate e io mantengo sempre le promesse! Lì sto organizzando una cosa davvero nuova per febbraio. Ho disegnato un’esperienza in cui si vede una parte del paese e si fa volontariato, è una mia idea, ho coinvolto persone che ho conosciuto in questi anni, quindi una cosa del tutto unica.

E adesso non ti resta che curiosare sul sito di Francesca Di Pietro.

Chissà che magari non ti venga voglia di partecipare a uno dei suoi workshop, o di progettare il tuo primo viaggio in solitaria.

Dedicato a chi si prende cura di altri

Questo post è dedicato a te che ti prendi cura di…

A te che la prima domanda che ti fanno è: «Come sta lei (o lui)?», non «Come stai tu?».

A te che non conta se passi le notti in bianco perché conta solo la “sua” insonnia.

A te che ti ammali perché somatizzi ma non hai soldi per curarti perché i soldi servono per le “sue” cure.

A te che passi i giorni ad informarti, a capire, ad alleviare i “suoi” dolori.

Questo post è dedicato a te, l’altra persona, quella che sta a fianco, sostiene, guida, fa le file dal medico, prepara da mangiare, incastra gli appuntamenti.

Sì, perché è normale, è umano pregare e avere sentimenti di vicinanza per chi sta dichiaratamente male, per chi sta invecchiando, per chi si è rotto una gamba, per chi è depresso. Ma in pochi hanno lo stesso atteggiamento per chi sta accanto a chi è malato, per chi se ne prende cura.

Per chi si prende cura

Oggi voglio dire a te:

Un tramonto dedicato a chi si prende cura degli altri

Sei una grande!

Non sei poverina, non sei sfigata.

Sei una fo**utissima empatica.

Scusa se uso toni forti, ma ci tengo davvero a raccontarti perché devi valorizzarti per essere tu e non un’altra, quella che sta a fianco.

Aiutiamoci con l’origine delle parole.

Partiamo dalla parola empatia e vediamo cos’è esattamente.

Empatico è chi riesce a mettersi nei panni dell’altro sentendolo.

En-pathos, infatti, in greco significa “sentire dentro”.

Tu, mia cara persona empatica, riesci a sentire le emozioni dell’altro, le fai tue, le comprendi meglio di chiunque altro. Percepisci i suoi pensieri e le sue emozioni, appunto, con “pathos”.

Mica da tutti, no?

Altra parolina chiave è…

Compassione

Attenzione! Non nel senso cui siamo abituati nel nostro vecchio e colto occidente.

Mi piace in questo caso raccontarti cos’è la compassione nel Buddismo.

Jihi, la parolina giapponese che esprime la compassione, viene tradotta come “togliere sofferenza e dare felicità”.

Alleviare il dolore e dare gioia. Non è un avere o sentire pietà.

Non contempla il giudizio. È piuttosto un “partecipo” della tua sofferenza, la faccio mia e, insieme, facciamo un percorso “momentaneo”.

Perché non è per sempre, nella vita tutto è in continuo divenire, cambia, si muove. Anche la malattia, anche le sfighe pazzesche, persino l’acne.

E durante questo percorso momentaneo facciamo un’esperienza comune, non individuale.

Ché finito questo pezzo di strada insieme, avremo fatto un saltino in avanti nella nostra vita di esseri umani. Ci saremo evoluti, tu e io.

E grazie a questa evoluzione andremo verso una nuova esperienza, insieme o con qualcun altro. E quell’empatia, quella compassione potremmo usarle per cose diverse, anche più leggere e frivole, certo.

Ché non siamo nate per soffrire, per sacrificarci, per punirci.

Siamo nate per essere felici, per sfruttare questa vita dall’inizio alla fine e pure oltre.

Siamo nate per godere di questa terra e di queste emozioni, tutte, quelle allegre, spensierate, quelle ostili, turbolenti, tutte. Siamo nate per trasformare ogni esperienza in un’occasione di crescita.

E adesso lo vedi il tuo valore? Ti accorgi di quanto sia immenso?

Amicizia tra donne: amica o rivale?

Amicizia tra donne. Esiste davvero?

L’altro giorno ero in attesa dal medico, di quelle attese che sai quando cominciano e mai quando finiscono.

Di solito mi porto da leggere così mi rimetto in pari con i libri arretrati, ma qualche volta capita che le mie orecchie vengano distratte da altro.

– “Guarda, le donne so’ le peggio” –

– “Uh, lascia sta’ che a mia figlia quella str….. che ha in ufficio gli ha fatto le scarpe”-

Non so te ma io pensavo che questa roba della “rivalità tra donne” fosse ormai superata.

A quanto pare, invece, no!

E mi scontro ancora con donne che “rubano” i mariti alle amiche, o la promozione al lavoro.

Solidarietà femminile

L’amicizia tra donne non esiste: è davvero così?

Ammettendo anche che questi mariti siano cerebrolesi, esseri umani passivi perché “si fanno rubare”, che sinceramente, non so te, ma che senso ha stare con un uomo così… tralasciando l’uso di quella frase (“gli ha fatto le scarpe”) che mai fu tanto ironica usata tra due donne… mi sono incuriosita all’argomento e così ho cominciato a documentarmi.

Sulla rivalità tra donne si trova davvero una lunga letteratura, pagine e pagine di psicologia. Si sa che alla fine la psicologia ti riporta al rapporto con mamma e papà ma ogni scuola di pensiero ha aggiunto particolari interessanti a questo tipo di studi.

E devo dirti che, grazie a questa ricerca, sono riuscita ad approfondire degli aspetti di me che non avevo ancora preso in considerazione.

Ora, io non sono una psicologa, quindi non toccherò l’argomento da quel punto di vista.

Qui ti parlo come sempre da donna della strada.

Per lo meno cerco di guardare a questi aspetti della natura umana con le mie esperienze quotidiane.

Ecco perché ammetto che sono una di quelle ex-ragazze che ha disprezzato velatamente le donne e la femminilità per molti anni. Una di quelle che idolatrava gli uomini, che cercava sempre un insegnante uomo come punto di riferimento, che portava i pantaloni nella coppia.

Mi ricordo però un momento cruciale, un momento in cui mi si è accesa la famosa lampadina.

L’amicizia tra donne in un click

In un istante ho rivissuto tanti episodi della mia vita, dall’infanzia in avanti e mi sono resa conto che le persone che mi avevano causato più sofferenza fino ad allora erano stati uomini e quelle che invece mi avevano sostenuto e apprezzato di più erano state donne.

Non voglio generalizzare, naturalmente. Ho un padre meraviglioso, tra i miei migliori amici ci sono tanti maschi, non ho mai amato il femminismo puro né la festa della donna.

Ma non posso non constatare che da quel momento, da quel click, si è aperta una porta dentro di me e da quella porta sono entrate una dopo l’altra delle donne meravigliose, quelle che io chiamo le mie sorelle di vita.

Non sorelle biologiche ma amiche delle quali oggi non potrei più fare a meno.

Sono donne, tutte diverse tra loro, diverse da me, di ogni età, con vite totalmente differenti, ma è come se da quel giorno io non avessi più guardato lo strato esterno.

Sono riuscita a vedere l’essenza e loro hanno fatto lo stesso con me. Così ci siamo riconosciute.

Non si tratta di amicizie morbose, di quelle che ti devi chiamare sempre. A volte capita che non ci si veda/senta per mesi e mesi. Ma quel legame c’è e rimane lì, indipendentemente dalle vite che facciamo.

Una vera sorellanza tra donne.

Amicizia tra donne
Mia figlia con la sua sorella di vita

La parola amicizia finisce con la “A”

La parola “amicizia” finisce con la “a”, l’articolo che la precede è “la”. È insomma una parola declinata al femminile.

Non dico che non si ci sia questo bisogno di confrontarsi con l’altra (che poi se ci fai caso, molte delle qualità e dei comportamenti che vediamo nell’altra persona, le ritroviamo anche in noi, seppur nascoste o smussate).

Ma credo che la nostra arma più potente sia quella di valorizzarci.

Di mettere la luce verso il talento mio e dell’altra persona, di guardare prima dentro di me se c’è qualcosa che mi risuona e che quindi solo io posso cambiare.

E poi, se proprio quella persona continua a essere negativa e conflittuale, va bene anche lasciarla andare.

Insomma non ce l’ha mica prescritto il medico che dobbiamo stare insieme!

Anzi la maggior parte delle volte è proprio disarmarsi davanti ad una persona così che porta risultati migliori.

E tu che ne pensi? Hai esperienze a riguardo all’amicizia al femminile?