Quattro anni di te…

Dicono che siano le madri a insegnare ai figli a crescere. Ma di questo non sono così convinta.

Facile? No, come del resto non lo è per la madre che, dopo la fatica del parto, deve affrontare notti insonni e tempeste ormonali.

Io ho affrontato il tuo rifiuto che, per qualche giorno, sfiorava le corde del mio fidato pensiero: “Non sei nata per fare la mamma”.

Ero stanca ed emotivamente delicata per capire che era il tuo modo di mettermi alla prova.

Non ero pronta alla tua forza fisica, alla tua rabbia.

Nessun corso ti prepara a un esserino con un vissuto come il tuo.

I primi mesi era un costante lottare con quello che sentivo dentro e le interferenze esterne. Tutti erano grandi dispensatori di “Fai così”, “Prova questo”, “Si fa così”. Tutti, ci tengo a dirlo, mossi da affetto e dedizione.

E quel non capire come si possa scegliere di adottare prima di avere un figlio biologico…

Il perché io ce l’ho sempre avuto dentro ed era il mio desiderio di non farti sentire una “seconda scelta”.

Non mi è mai importato delle critiche, non mi è mai importato di chi ci avrebbe guardato pensando: “Non potevano avere figli loro”.

L’unica cosa di cui mi è sempre importato è che tu sapessi di essere stata voluta “indipendentemente” dalla possibilità di avere un figlio biologico.

Ancora oggi mi ricordo quel momento in cui ho pensato:

“Adesso decido io”.

quattro anni di te

I nostri primi 4 anni insieme

È stato come mettere un punto fermo.

Tu e io.

Fidarmi di quello che pensavo fosse giusto per noi. Tutto il resto via.

Da quel momento è cambiato il ritmo.

Tu hai smesso di mordere e calciare, io tornavo a respirare.

Da quel momento è iniziata la nostra storia di mamma e figlia.

Pochi giorni dopo la conferma. Eravamo in macchina, tu seduta sul seggiolo dietro, io al volante: «Mamma, ti voglio bene come il mare».

Poche parole, quel “Mamma” pronunciato dalla bimba che mi aveva dato del filo da torcere nei mesi precedenti, da una bimba che non era scontato mi scegliesse come madre, con quel mare che solo chi mi conosce nel profondo, sa quanto mi appartenga.

Quelle parole hanno dato fiducia alla mia decisione.

Era la strada giusta. Così è stato.

Da allora siamo diventate una squadra, indissolubile, forte e divertente.

Per te ho volutamente affrontato battaglie complicate. E le ho vinte.

Grazie a te ho conosciuto la mia forza, quella vera, quella che può stravolgere l’impossibile.

Sei tu che mi hai rivelato chi ero

Hai dato luce ai miei pensieri.

Hai risposto ai dubbi su me stessa.

Hai scrostato involucri di insicurezze.

Non sono mai stata, né lo sarò mai, una mamma tradizionale.

Adoro la tua indipendenza e la incoraggio. Sono innamorata della tua allegria e dell’importanza che dai al tuo essere femmina.

Mi hai insegnato tu com’è il pensiero femminile non sporcato da una società che mette i maschi sul piedistallo.

Non ho mai cercato di cambiarti e ogni giorno mi prometto di non farlo, perché non è affar semplice e il rischio di omologarti a me o a qualcun altro è altissimo. Ma ci provo.

Provo a seguirti, anziché spingerti a seguire me. Perché la strada dove mi porti è sempre più interessante di quella che conosco.

Quando mi dicono che deve essere stata dura, tutta quell’attesa, quella burocrazia, il paese, “certo, se fosse stata più piccola”… io non ricordo nulla di duro in quell’attendere. Forse quei primi mesi.

Il resto è stata solo una passeggiata primaverile in montagna, qui e là qualche salita impervia e un’immensità di fiori colorati.

Mi accompagnava una vocina che diceva che eri lì, da qualche parte, che eri il mio pezzo mancante ed era proprio così.

Con te sono completa.

Non è l’età, il sesso, il colore dei capelli ad avere importanza.

Non c’è un catalogo da cui scegliere se non quello della vita profonda.

– «Mamma, lo sai quanto ti ringrazierò da grande?»-

– «Perché, amore?»-

– «Perché sarai stata tutta la vita con me»-

Dovevi essere tu. Nessun altro/a.

Ammalarsi ai tempi delle mamme 2.0

La parola “ammalarsi” non è contemplata nel vocabolario della mamma 2.0.

Qualche giorno fa, la gnoma si era, per l’appunto, ammalata e io ero in piena crisi emotivo-organizzativa per la presentazione di Safari.

Dovevo arrivarci sana e salva, senza alcuna traccia di raffreddore o mal di gola.

Pensa all’autore che, con pathos e struggimento (ok, sto esagerando ma i poeti maledetti hanno sempre esercitato un certo fascino su di me), spiega la sua creatura tirando su col naso o strozzandosi per l’afonia.

Oh, my god, che tristezza!

Vai di training autogeno “Celapossofare, celapossofare, celapossofare”, vitamina C a gogò, echinacea e compagnia bella a combattere i suoi Etciù sparati direttamente sui miei orifizi facciali con la mira di un cecchino, abbracci moccicosi da mammahobisognodite e i tuoi tentativi di staccartene cercando di non compromettere il suo equilibrio psichico.

I microbi entrano nel corpo di Lui che dorme con la sottoscritta, il che comporta notti insonni pur di assumere costantemente posizioni opposte alle sue, con l’unico scopo di evitare contatti notturni indesiderati, e ti dici: “È tutto ok. Domenica è vicina e io sto bene”.

E lunedì?

Domenica va tutto alla grande ma lunedì…

(colonna sonora di Profondo Rosso in sottofondo)

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Lunedì il corpo cede inesorabilmente. Ti parla e ti dice: “Oh, bella! Mica sei super woman”.

E ti ritrovi con un gran bel casino da risolvere.

Ammalarsi in casa alcontrario

Ammalarsi? No, grazie!

Ti sei ammalata!

Questi sono i momenti in cui mi sento vicina alle Amiche di Fuso perché, pur non essendo expat, i 900 km di lontananza dalla famiglia rendono impossibile la telefonata: “Mamma, che hai da fare oggi? Avrei un certo bisogno di te”.

E va bene quel giorno (il primo) in cui ti senti stordita ma stai ancora in piedi; quel giorno (il secondo) in cui chiedi aiuto alla mamma dell’amichetta di turno perché ti prenda la gnoma da scuola; quel giorno (il terzo) in cui sei ottimista e ti ripeti: “Domani mi lavo i capelli”, e ne sono passati altri quattro; quei giorni che ti sembra passeggera e invece non passa più.

E poi arriva il giorno X (il quarto per la cronaca), quello stramaledetto giorno che non ce la fai neanche ad alzarti dal letto per fare pipì, che LUI è andato al lavoro e la gnoma è a scuola, che rimani stesa fino ad ora di pranzo ma poi, morta di fame, decidi che forse è meglio tentare di arrivare alla cucina.

Ammalarsi: l’umiliazione

Ti trascini lì con le movenze di un’anaconda, apri il frigo, poi la credenza, ti siedi mentre rimugini sul da farsi.

Ti dici: “Devo assolutamente mangiare qualcosa”, e alla fine, non hai altra scelta che ripiegare su di Lei, sì, lei, acquistata proprio per le emergenze, sigillata, nell’angolino dietro la farina:

la scatoletta di tonno!

Che poi si sa, è opinione dei più famosi nutrizionisti al mondo che la scatoletta di tonno sia digeribile come il brodino di pollo, quindi non ti lamentare se, dopo, passi il pomeriggio con un rigurgito perenne di olio in scatola.

Nel letto, da sola.

La depressione ti attanaglia e inizi a decantare l’ode vittimistica: “Sigh, però io ci sono sempre quando si ammalano quei due. Quando mi ammalo io, invece, non c’è nessuno che si occupi di meeeeee … sigh… sigh”.

Come da copione, lacrime a ripetizione e, in sottofondo, Celine Dion:

All by myself

Don’t wanna be

All by myself

Anymore”.

Cerchi di leggere un libro e dopo due pagine, ti convinci di essere dislessica. Provi a rispondere a qualche messaggio, ma il dito ti scivola giù in un nanosecondo. Alla fine ti accontenti di accendere la radio e dedicarti alla pratica spumeggiante dell’osservazione del soffitto. Yeah!

Lo specchio, no, su!

Quelle rare volte che (eppure lo sai che non è salutare) decidi di avvicinarti allo specchio, lui non può farcela e urla:

Viaaaaaa! Vai via, migra verso i lidi di trucco e parrucco. Solo allora potrai tornare da me”.

E con sguardo basso, torni, tapina, verso l’amato/odiato giaciglio.

C’è però quel momento in cui la gnoma ti mette una mano gelata sulla fronte bollente, tu le chiedi come mai le sue mani sono così fredde, e lei ti risponde: “Sono andata a lavarle con l’acqua fredda, così potevo rinfrescarti“.

Finalmente ammalarsi non è più un limite, non ti senti più sola e, motivata da tale gesto, ricominci a recitare il mantra:

#celapossofare

#celapossofare

#celapossofare

Una lezione al di là di ogni sospetto

Una lezione da mia figlia

Nel giorno in cui attendo Marty dal suo Ritorno al futuro (e lo attendo davvero, guardandomi intorno come se mi aspettassi di vederlo per strada da un momento all’altro), io che da fiera donnaalcontrario in quel lontano ’85 tutto mi sarei immaginata fuorché di diventare mamma, a 39 anni suonati imparo una lezione tutta nuova.

Per cinque settimane ho avuto pochi attimi al giorno, bronci sfuggenti tra bagno e cucina,  saluti fugaci sull’uscio di casa, baci rubati mentre dormiva già da ore.

I ricci informi perché Lui ha le dita troppo grandi (???) per incrociarle in un codino colorato…

I compiti affidati alla pazienza dei nonni piombati in aiuto della family al contrario

La tosse infinita, perché ha pensato bene di ammalarsi quando non ero disponibile a portarla dal pediatra…

I piedini (o dovrei dire piedoni) cresciuti tempestivamente questo mese che tra un po’ le vecchie sneakers si sarebbero trasformate in open toe

E io che non avevo neanche un briciolo di energia per sentirmi una madre degenere…

Una lezione che mia figlia mi ha insegnato

Confesso, non ce l’ho fatta!

Il mio lavoro di costumista, un lavoro che amo alla follia, che per anni è stato l’unico obiettivo della mia vita, un lavoro tanto meraviglioso quanto duro, che ti permette poche ore di sonno e non sempre tranquillo, quel lavoro mi ha completamente assorbito.

Sapevo che dovevo dare il 100% e l’ho dato, senza pentirmi neanche per un secondo, e con gioia perché oltre che un lavoro è la mia passione, e mi concede di incontrare persone eccezionali che voglio nella mia vita e a cui non posso e non devo rinunciare.

Un lavoro che ha un inizio e una fine certa.

Sapevo che il 10 Ottobre sarei tornata alla mia quotidianità.

E se in passato speravo che quel momento non arrivasse mai, questa volta avevo la consapevolezza che, sì, sarebbe stato terribilmente triste ma che dopo il 10 ottobre non sarei rimasta agonizzante nell’oblio del “non ho più ragione di vivere”.

Mi aspettava la mia vita, Safari e soprattutto Lei.

Una lezione da non dimenticare

Non avevo intuito quanto mia figlia avesse in me un punto di riferimento… e pure chiaro, solido.

E che senza quel punto di riferimento, tutte le sue fragilità, espresse anche con atteggiamenti scontrosi e, diciamolo pure, da grandissima “cagacazzo”, sarebbero emerse all’ennesima potenza.

Non avrei mai immaginato che perdere me, seppur per un tempo circoscritto (e ti assicuro, non lo dico per delirio di onnipotenza… anzi), volesse dire per lei perdere la direzione… quella direzione che pian pianino abbiamo costruito insieme negli ultimi tre anni .

In mezzo c’è stata una settimana che io chiamo di riallineamento.

Con scontri continui, fastidi reciproci, facce da “non ti sopporto più” ma…

… Quando domenica al cinema, aggrappate l’una all’altra, piangevamo all’unisono alla vista di Bing Bong (l’amico immaginario di Inside Out), che si sacrificava per la felicità della sua bambina, ho imparato la lezione e tutto si ricomponeva.

Di nuovo eravamo una squadra, forte, compatta…

Di nuovo comunicavamo solo con lo sguardo…

Di nuovo parlavamo di “cose da femmine”…

Di nuovo daje con gli scherzi da sceme incallite.

E forse quando alle h 16,29, appena uscite da scuola, ci imbatteremo nella DeLorean con Marty, Jennifer e Doc a bordo, le racconterò di un vecchio film dell’ ’85 e di una bambina che non sognava di essere madre e che oggi è fiera di esserlo di Lei.

Lettera a una neomamma al contrario

Ehi, dico a te.

Sì, sì, proprio a te, mia cara neomamma.

A te che sfornelli la cena della tua pupetta e il ricordo degli aperitivi con le amiche è ancora fresco.

A te che il weekend ti rifiutavi di scendere dal letto prima di mezzogiorno e adesso alle 7 sbuca una manina dalla porta di camera vostra.

A te che non sapevi neanche cosa fosse una crema anti-age e, da quando è arrivata lei/lui, sì, proprio da quel giorno, magicamente è apparsa la prima ruga.

A te che adesso che entri nei negozi, ti danno del LEI e ti chiedi: “Ma che, lo sanno che ho una figlia?”.

A te che il sabato pomeriggio eri indaffarata in cose private con Lui e adesso sei immersa in feste per bambini, super-organizzate e piene di palloncini (Yeah!).

A te che pur di indossare i tuoi adorati tacchi, ci vai a far la spesa e ti domandi anche perché gli altri ti guardino.

A te che ti addormenti sul divano mentre la gnoma è ipnotizzata dai cartoni.

(Tata Lucia sarebbe molto arrabbiata con me).

Neomamma adottiva
Il suo primo viaggio in metropolitana

A te, neomamma

A te che ti sfugge sempre qualcosa perché adesso devi organizzare la giornata non per una ma per tre. Sì, perché Lui da quando è padre, ha dimenticato di essere un adulto autonomo ed è sempre stanco… lui è stanco, capisci?????!!!!

A te che ancora oggi la tua borsa è sfornita di fazzoletti, salviette umidificate, succhi di frutta, bottigliette d’acqua (che altro c’è nel kit borsamammaperfetta?) perché proprio non gliela puoi fare.

A te che ti ripeti che troverai il tempo per andare in palestra e il tuo corpo sta inesorabilmente obbedendo alla legge di gravità senza aspettare quel tempo.

A te che obblighi tua figlia a giocare a Lego, anche se lei vuole giocare a Barbie. Prima o poi dovrò confessarle di averli tanto desiderati da piccola o chiamerà il telefono azzurro.

Sì, dico proprio a te, mia cara neomamma

A te che quel giorno che sei a pezzi e fai smorfie inimmaginabili per non farglielo notare, lei ti scruta e ti dice: “Mamma, perché sei giù oggi?“.

A te che, quando ti vesti tutta caruccia, quel tanto atteso “Sei bellissima” non arriva da Lui, che sta ancora cercando chiavi e cellulare (vedi sopra). Ma da quelle labbra di bimba che ti guarda con occhi brilluccicosi e adoranti.

A te che, quando le proponi un giro del mondo, lei ti dice: “Sì, mamma, ma ti prego, non portiamoci valigie. Compriamo tutto là”.

E qui capisci che non si sa dove l’ha preso quel DNA ma che è indistinguibilmente il tuo.

E che contro tutti i tuoi pronostici, è meravigliosamente eccitante immaginare dove ti porterà quest’avventura da neomamma!

Adozione internazionale: il mio parto al contrario

Racconto di un’adozione internazionale al contrario.

Prologo

Afa romana di inizio Maggio. Io che annaspo in salita con le borse della spesa in mano.

Donna settantenne del quartiere che mi punta all’orizzonte. No, ti prego, non mi fermare.

– “Buongiorno, come va?” – Le mie braccia piangono in silenzio.

– “Bene, grazie, Lei?”-

– “Bene, bel tempo oggi, vero?” – Ma perché te devono chiedere sempre del tempo? Non lo vedi da sola? Basta alzare gli occhi al cielo.

– “Certo, adesso si vede che sei più felice” –

I miei occhi sgranati e la mente che si arrovella per capire madichestaparlando?!

– “Sì, adesso che hai la bambina”-

Ahhhhh… Ora capisco. E penso, quindi tutte le volte che m’incontrava prima, devo aver avuto una faccia tristissima perché invece oggi, con le buste della spesa piene e il sorriso forzato, mi vede TANTOOO felice.

Ecco arrivare un altro vecchietto con la macchina. Accosta e la saluta. Ringrazio la provvidenza e velocemente approfitto per scappar via.

– “Vabbè, allora vado. Buona giornata” –

Che poi però ho pensato: quindi una donna è felice solo dopo aver avuto un figlio? Prima è una specie di nulla in attesa di completarsi?

Capitolo 1 (forse l’unico)


adozione internazionale

La nostra adozione internazionale

Ho sempre avuto fidanzati desiderosi di procreare, così tanto paterni.

Ma non erano le donne quelle che insistevano per avere figli? Anche in questo sono sempre stata alcontrario, ahimè!

Vogliamo parlare poi dell’orologio biologico? Ma che è? E soprattutto perché a me non è mai scattato?

Quando ero piccola, giocavo con le macchinine di mio fratello. Mi piaceva fare il portiere nelle partite di calcio dei miei amici, rigorosamente maschi.

C’era un’unica bambola che adoravo, la chiamavo Kuntaki, era nera come la pece e riccia come solo il riccio africano può essere.

Ci ho giocato e giocato e l’ho anche distrutta, non ricordo se le ho spezzato un braccio o una gamba.

Credo che mia madre l’abbia gettata in uno dei suoi raptus da buttoviaqualunquecosaincontrosulmiocammino. Uno dei grandi traumi della mia infanzia!

Beh, sta di fatto che quando nella mia testa iperattiva si è affacciato il pensiero che mio figlio sarebbe stato africano, mi sembrava la cosa più naturale della terra.

Meno naturale la burocrazia che ha allungato di ben 3 anni la gravidanza dei comuni 9 mesi.

Meno naturale il fatto che tutto il mondo si facesse i fatti tuoi, anche su questioni piuttosto intime (che siccome sei intelligente, puoi intuire da sola/o).

“È stata una scelta”

Inutile dirti quante facce sgomente abbia visto al cospetto della mia sentenza: “Ma sai, è stata una scelta”.

Una scelta? Ma che sta a dì questa? (versione siciliana macomeècumminatachista) scritto sulla fronte della mia interlocutrice a caratteri cubitali.

Nemmeno chi di dovere se n’è fatta una ragione, figuriamoci gli altri, le mamme in prima linea. Nessuno credeva alla mia versione, credo che in tanti non ci credano ancora adesso.

Poi ci sono quelli: – “Uh, che bravi! Che bella cosa avete fatto!” – come se adozione internazionale volesse dire salvare il mondo.

Ma la frase più bella, eccola qui!

Sai, magari dopo l’arrivo del bambino, verrà naturalmente uno tuo”.

Ehhhhhhhhhhhhhh???????

Ci sono due cose che in questa frase tanto sentita, non capisco:

1) Intanto stai già decidendo che io non possa avere figli, il che oltre a non essere vero (ti ho detto che è stata una scelta!!!), è affare solo mio e di mio marito.

2) Perciò questo bambino non è mio? O non è mio abbastanza?

È femmina!

Di Catherine, perché poi è arrivata una femmina (ma sai, io il sesso non volevo saperlo prima), posso dire che se avessi dovuto scrivere come l’avrei voluta, non avrei potuto essere più precisa.

Catherine è mia figlia dal primo riccio sulla testa al mignolino del piede.

Quello che dice e che fa, come pensa, come si muove, i suoi desideri, la sua ironia, il suo broncio, la nostra telepatia, la sua fisicità nel dimostrare l’affetto, sembra che qualcuno l’abbia programmata per arrivare da me.

Tutte le volte che scrive di me è come se mi conoscesse meglio di chiunque al mondo.

Sa leggermi come nessuno ha mai fatto prima.

Mi guarda come non ha mai fatto nessuno.

Non so spiegare questa cosa con le parole, so solo che siamo fatte della stessa pasta.

E tutto questo io non lo sapevo prima di conoscerla, è stata una sorpresa continua, una sorpresa chiamata adozione internazionale.

Non sono diventata mamma, sono diventata la mamma di Catherine.

Poi un bel giorno mi ha detto: – “Mamma, sai che io penso che tu mi hai nato?” –

E io so per certo che quel 28 di agosto, quando lei, nei 50 gradi velati di smog all’aeroporto di Kinshasa, mi è corsa incontro, placcandomi con la forza che solo una bambina africana possiede, e buttandomi giù per terra in posizione fetale, quel giorno, senza alcun dubbio,“l’ho nata” io.

So che per molti resterò una povera mattaillusacredulona ma io invece ho questa strana sensazione che non se ne vuole andar via, che io e lei ci stavamo cercando e ci siamo solamente ritrovate.