Adozione: il viaggio che mi ha cambiato la vita

Nella mia vita il viaggio è LA componente fondamentale. Se non viaggio, mi ammalo.

Non sto scherzando.

È proprio così. Comincio ad abbrutirmi.

I giorni diventano sempre più grigi e il mio corpo ne risente così tanto che manifesta disturbi, anche molto seri, la cui principale causa è l’assenza di un biglietto aereo nelle mie tasche.

Ora tu penserai: chissà quale sarà il viaggio che le ha cambiato la vita?

Il Myanmar? Il Giro del Mondo? L’Africa?

Non posso negare che ognuno dei miei viaggi mi abbia cambiato la vita in maniera indelebile.

La conoscenza di culture diverse dalla mia, il modo di vivere in altri luoghi, la mia folle sete di curiosità si alimenta e cresce esclusivamente grazie al viaggio.

Adozione

Il viaggio rivoluzionario

Ma tra tutti, c’è un viaggio speciale che ha cambiato, che dico, che ha rivoluzionato da testa a piedi la mia vita.

Quel viaggio si chiama Catherine.

Quel viaggio si chiama adozione.

Ultimamente mi è stato detto che, da quello che scrivo, emerge che il nostro è stato sempre un rapporto idilliaco.

Non che voglia smentire questa cosa. Anzi!

Ogni giorno ho la prova che mai altra/o figlia/o sarebbe stata possibile nella mia vita al di là di lei.

Ma come tutti i viaggi (e non le vacanze) che si rispettino, anche il viaggio dell’adozione è stato impervio e ricco di difficoltà.

Difficoltà tali da farmi credere che mai sarei arrivata a lei.

Adozione: never give up!

C’è una grande macchina mostruosa che si chiama “burocrazia”, guidata spesso da gente incompetente sia dal punto di vista pratico che emotivo.

Una macchina che si erge a dare ordini, a esprimere giudizi al limite dell’insensato e che decide se avrai il timbro del “bravo genitore” oppure no. Questa è la prima grande difficoltà.

Il nostro percorso pre-adottivo è stato terribile. Punto e basta.

Non ho nessuna intenzione di edulcorarlo dicendo che qua e là abbiamo incontrato brave persone. Quelle per fortuna ci sono.

Ma chi vive in prima persona il carico da 90 sono i due elementi della coppia che non sono robot ma esseri umani e, spesso, per fortuna non sempre, questo aspetto viene sottovalutato.

Ho sentito di persone valutate come “ideali” che poi hanno rimandato indietro il bambino. Altre che hanno accettato tutto in nome di non so quale bisogno affettivo.

Non sta a me giudicare.

Le difficoltà che si vivono con un essere “altro” sono immense, impossibili da capire se non vissute personalmente.

Ma io in quanto donna che “ha scelto di adottare” e non di “procreare”, mi sono sentita rivolgere giudizi e accuse che nemmeno se avessi scelto di fare un’azione criminale.

Alla fine è contato solo il desiderio profondo, quello ha attivato l’ambiente intorno a me e poi…

Adozione la gioia

Insieme

Poi c’è stato l’incontro, ma mica è stato un incontro da favola.

Perché la mia congo-girl mi ha subito rifiutata.

E lo ha fatto per tanto tempo, così tanto che ho pensato di aver sbagliato tutto, che non fossi in grado di essere una madre per lei.

Mi ha messo profondamente in crisi.

Anche allora è stata una decisione interiore a tirarmi fuori dal pantano.

Anche allora il desiderio è stato l’unica forza motrice del cambiamento.

Decidere che mi sarei presa la totale responsabilità di questa bambina, del nostro rapporto, al di là di quello che dicevano gli altri, dei consigli di assistenti sociali e parenti.

Tutti si proclamano esperti ma ti assicuro che se ho imparato una cosa, è che si può essere esperte/i solo di quello che vivi tu, null’altro.

E questo è valso anche per tutte le cose vissute con lei dal momento in cui abbiamo messo piede in Italia ad oggi.

Adozione? Sì!

Rifarei ogni passaggio di questa adozione se questo volesse dire ritrovare lei, perché non ho mai avuto dubbi sul fatto che lei e io ci siamo scelte.

Ci siamo cercate e ci siamo ritrovate.

Ogni volta che mi legge nella mente, che sa esattamente cosa fare per tirarmi su il morale… ogni volta che siamo complici, che le nostre vite corrispondono in maniera simmetrica, mi dico:

“Ecco, hai visto? Ti sembrava che fosse tutto contro, che non ce l’avreste mai fatta, che tu non eri adatta e invece ascoltare la voce che dentro di te ti spingeva a lei, è stata l’unica cosa giusta che hai fatto”.

Mi guardo indietro ed è vero, oggi vedo solo gli episodi più belli: il nostro giro del mondo insieme, le sue parole al momento giusto, la sua crescita, persino le sue sopracciglia.

E non ho bisogno d’altro.

I ricordi negativi, complicati, i pianti, la disperazione di certi momenti, restano ma sotto il velo di questo viaggio incredibilmente meraviglioso. Un viaggio rivoluzionario per me che mai, prima di lei, avevo desiderato essere mamma.

Per noi due che costruiamo giorno dopo giorno un rapporto madre/figlia in molte parti ancora sconosciuto.

Per me e Lui che la viviamo nella nostra quotidianità con le urla per i compiti e la non voglia di fare la doccia.

Per tutte le persone che credono di non farcela e invece, ti dico, vai oltre quel pensiero perché al di là di quel pensiero c’è un viaggio rivoluzionario che ti aspetta.

Il nostro primo incontro

È strano perché io non ci pensavo più da un po’… a quell’incontro.

È stata la mia amica Maddalena qualche giorno fa, su twitter, a chiedermi di raccontarlo.

Oramai è diventato tutto talmente quotidiano e “normale” che pensare ci sia stato un primo incontro, oggi, mi risulta strano.

Eppure c’è stato. Ed è un ricordo molto vivido nella mia memoria.

Il nostro continuo incontro

Un incontro, il nostro, che racconta esattamente chi siamo

Io, lei e io e lei: un incontro al limite del comico.

Ci avevano detto che avremmo incontrato le bambine (eravamo due coppie) nella casa dove vivevano, perciò l’idea di scendere dall’aereo prevedeva un’unica preoccupazione: passare i controlli con tutti i documenti del caso e ritirare i bagagli. Il che non era una preoccupazione qualunque, visto che il paese delle nostre bimbe è la Repubblica Democratica del Congo, e l’aeroporto non era la Malpensa di Milano.

La pelle sudaticcia, le occhiaie profonde… e chi cavolo aveva dormito in aereo!

Insomma non certo l’aspetto curato che speri di avere all’incontro più importante della tua vita. Ma forse ancora allora non ne ero davvero consapevole.

Il piazzale davanti l’aeroporto era una vera bolgia ma era l’Africa. Ero già stata in Africa e quella bolgia l’avevo amata. Eppure questa volta dovevo stare attenta: non ero lì in vacanza, avevo una responsabilità.

Mi ricordo bene d’aver visto in lontananza due bimbe correre in mezzo a quella bolgia e ho cominciato a gridare: “Sono loro, sono loro”, senza che i miei compagni di viaggio se ne accorgessero.

Non è passato che qualche secondo e quello scricciolo di poco più di un metro mi ha buttato giù con un placcaggio degno di un campione rugbista.

Le valigie sparse per il piazzale, completamente rimosse dal cervello. In pochi secondi mi sono trovata con il gomito sanguinante, C. in braccio, con le sue gambe in mezzo alle mie, nella stessa posizione in cui le donne partoriscono.

Una strana coincidenza, vero?!

Primi giorni

Di quei primi giorni ho tanti ricordi, non soltanto di momenti passati insieme, ma soprattutto di emozioni, emozioni contrastanti. Il suo sguardo indagatore. La sua energia vitale che, per fortuna, non è mai scomparsa. Il suo metterti alla prova… continuamente.

Le mie paure in quei bagni pieni di zanzare, io che non avevo fatto la profilassi antimalarica. La sensazione di essere rifiutata e di aver fatto tutto quel percorso inutilmente.

Fino a quella notte…

Una delle tante notti insonni…

Esattamente come le neo mamme svegliate dai ritmi del loro bambino.

Una notte difficile, in cui camminavo per la casa buia, da sola.

Mi sembrava di impazzire.

Mi sembrava che tutta l’energia che avevo messo in questa cosa fosse stata vana.

Ero pronta a dichiarare la sconfitta, tanto ero stanca e provata.

Ma poi mi sono seduta, ho cominciato a recitare il mantra che recito tutte le mattine e le sere perché avevo bisogno di staccare la mente, di staccare da tutte quelle emozioni disarmanti.

E proprio lì, in quella notte buia, ho preso una decisione.

La decisione

Ho deciso che mi sarei presa tutta la responsabilità di questa storia, che lei era mia figlia, che era arrivata da me, non da un’altra donna, e che era venuto per me il momento di crescere e di accettare la mia maternità, io che madre nella vita non avevo mai desiderato esserlo.

Da quel giorno le cose sono cambiate. Ci sono stati altri momenti difficili, ce ne sono ancora oggi del resto, ma io e lei siamo diventate “noi”. E noi siamo diventate una squadra talmente forte che nessuna bugia, nessun ostacolo, nessuna incomprensione può scalfire.

Oggi siamo telepatiche. Ci serve solo guardarci negli occhi per capirci. Le parole sono quasi inutili. Oggi sappiamo entrambe perché ci siamo incontrate e, come dico spesso, se mi avessero chiesto di scrivere come pensavo sarebbe stata mia figlia, quello che avrei scritto non riuscirebbe ad eguagliare quello che lei è nella realtà.

Ho già scritto a lungo delle parole disarmanti che lei mi ha rivolto in questi quattro anni, parole che io ho cercato in molti rapporti della mia vita senza mai trovarle.

Parole che mi scrutano dentro, che comprendono la mia vita profonda.

E gesti come uno di qualche settimana fa… quando mi ha vista giù e mi ha abbracciata con la sua “incredibile” forza africana e mi ha detto:

Io sono qui per proteggerti. Non dimenticarlo mai”.

Poi pensi che sei tu la madre, che è il tuo ruolo quello di proteggere e lei se ne esce con queste parole che spaiano le carte in tavola.

Queste siamo noi

Quel primo incontro è lo specchio di quello che siamo ancora oggi e, probabilmente, di quello che saremo in futuro.

Lei, in maniera assolutamente inaspettata, ha ridato speranza a obiettivi che avevo messo da parte.

Mi ha mostrato che l’universo agisce in un modo tutto suo e che, se non è ostacolato dai nostri pensieri e dalle nostre paure e limitazioni, regala cose straordinariamente più grandi di quelle che la mente umana può cogliere.

Lei ha dato luce alle mie qualità migliori.

Ha permesso a me di vederle, a me che troppo spesso ho incontrato persone che non le hanno viste o le hanno disprezzate.

E oggi io sono di nuovo consapevole di chi sono e di cosa ho il potere di realizzare.

Quattro anni di te…

Dicono che siano le madri a insegnare ai figli a crescere. Ma di questo non sono così convinta.

Facile? No, come del resto non lo è per la madre che, dopo la fatica del parto, deve affrontare notti insonni e tempeste ormonali.

Io ho affrontato il tuo rifiuto che, per qualche giorno, sfiorava le corde del mio fidato pensiero: “Non sei nata per fare la mamma”.

Ero stanca ed emotivamente delicata per capire che era il tuo modo di mettermi alla prova.

Non ero pronta alla tua forza fisica, alla tua rabbia.

Nessun corso ti prepara a un esserino con un vissuto come il tuo.

I primi mesi era un costante lottare con quello che sentivo dentro e le interferenze esterne. Tutti erano grandi dispensatori di “Fai così”, “Prova questo”, “Si fa così”. Tutti, ci tengo a dirlo, mossi da affetto e dedizione.

E quel non capire come si possa scegliere di adottare prima di avere un figlio biologico…

Il perché io ce l’ho sempre avuto dentro ed era il mio desiderio di non farti sentire una “seconda scelta”.

Non mi è mai importato delle critiche, non mi è mai importato di chi ci avrebbe guardato pensando: “Non potevano avere figli loro”.

L’unica cosa di cui mi è sempre importato è che tu sapessi di essere stata voluta “indipendentemente” dalla possibilità di avere un figlio biologico.

Ancora oggi mi ricordo quel momento in cui ho pensato:

“Adesso decido io”.

quattro anni di te

I nostri primi 4 anni insieme

È stato come mettere un punto fermo.

Tu e io.

Fidarmi di quello che pensavo fosse giusto per noi. Tutto il resto via.

Da quel momento è cambiato il ritmo.

Tu hai smesso di mordere e calciare, io tornavo a respirare.

Da quel momento è iniziata la nostra storia di mamma e figlia.

Pochi giorni dopo la conferma. Eravamo in macchina, tu seduta sul seggiolo dietro, io al volante: «Mamma, ti voglio bene come il mare».

Poche parole, quel “Mamma” pronunciato dalla bimba che mi aveva dato del filo da torcere nei mesi precedenti, da una bimba che non era scontato mi scegliesse come madre, con quel mare che solo chi mi conosce nel profondo, sa quanto mi appartenga.

Quelle parole hanno dato fiducia alla mia decisione.

Era la strada giusta. Così è stato.

Da allora siamo diventate una squadra, indissolubile, forte e divertente.

Per te ho volutamente affrontato battaglie complicate. E le ho vinte.

Grazie a te ho conosciuto la mia forza, quella vera, quella che può stravolgere l’impossibile.

Sei tu che mi hai rivelato chi ero

Hai dato luce ai miei pensieri.

Hai risposto ai dubbi su me stessa.

Hai scrostato involucri di insicurezze.

Non sono mai stata, né lo sarò mai, una mamma tradizionale.

Adoro la tua indipendenza e la incoraggio. Sono innamorata della tua allegria e dell’importanza che dai al tuo essere femmina.

Mi hai insegnato tu com’è il pensiero femminile non sporcato da una società che mette i maschi sul piedistallo.

Non ho mai cercato di cambiarti e ogni giorno mi prometto di non farlo, perché non è affar semplice e il rischio di omologarti a me o a qualcun altro è altissimo. Ma ci provo.

Provo a seguirti, anziché spingerti a seguire me. Perché la strada dove mi porti è sempre più interessante di quella che conosco.

Quando mi dicono che deve essere stata dura, tutta quell’attesa, quella burocrazia, il paese, “certo, se fosse stata più piccola”… io non ricordo nulla di duro in quell’attendere. Forse quei primi mesi.

Il resto è stata solo una passeggiata primaverile in montagna, qui e là qualche salita impervia e un’immensità di fiori colorati.

Mi accompagnava una vocina che diceva che eri lì, da qualche parte, che eri il mio pezzo mancante ed era proprio così.

Con te sono completa.

Non è l’età, il sesso, il colore dei capelli ad avere importanza.

Non c’è un catalogo da cui scegliere se non quello della vita profonda.

– «Mamma, lo sai quanto ti ringrazierò da grande?»-

– «Perché, amore?»-

– «Perché sarai stata tutta la vita con me»-

Dovevi essere tu. Nessun altro/a.

Adozione internazionale: il mio parto al contrario

Racconto di un’adozione internazionale al contrario.

Prologo

Afa romana di inizio Maggio. Io che annaspo in salita con le borse della spesa in mano.

Donna settantenne del quartiere che mi punta all’orizzonte. No, ti prego, non mi fermare.

– “Buongiorno, come va?” – Le mie braccia piangono in silenzio.

– “Bene, grazie, Lei?”-

– “Bene, bel tempo oggi, vero?” – Ma perché te devono chiedere sempre del tempo? Non lo vedi da sola? Basta alzare gli occhi al cielo.

– “Certo, adesso si vede che sei più felice” –

I miei occhi sgranati e la mente che si arrovella per capire madichestaparlando?!

– “Sì, adesso che hai la bambina”-

Ahhhhh… Ora capisco. E penso, quindi tutte le volte che m’incontrava prima, devo aver avuto una faccia tristissima perché invece oggi, con le buste della spesa piene e il sorriso forzato, mi vede TANTOOO felice.

Ecco arrivare un altro vecchietto con la macchina. Accosta e la saluta. Ringrazio la provvidenza e velocemente approfitto per scappar via.

– “Vabbè, allora vado. Buona giornata” –

Che poi però ho pensato: quindi una donna è felice solo dopo aver avuto un figlio? Prima è una specie di nulla in attesa di completarsi?

Capitolo 1 (forse l’unico)


adozione internazionale

La nostra adozione internazionale

Ho sempre avuto fidanzati desiderosi di procreare, così tanto paterni.

Ma non erano le donne quelle che insistevano per avere figli? Anche in questo sono sempre stata alcontrario, ahimè!

Vogliamo parlare poi dell’orologio biologico? Ma che è? E soprattutto perché a me non è mai scattato?

Quando ero piccola, giocavo con le macchinine di mio fratello. Mi piaceva fare il portiere nelle partite di calcio dei miei amici, rigorosamente maschi.

C’era un’unica bambola che adoravo, la chiamavo Kuntaki, era nera come la pece e riccia come solo il riccio africano può essere.

Ci ho giocato e giocato e l’ho anche distrutta, non ricordo se le ho spezzato un braccio o una gamba.

Credo che mia madre l’abbia gettata in uno dei suoi raptus da buttoviaqualunquecosaincontrosulmiocammino. Uno dei grandi traumi della mia infanzia!

Beh, sta di fatto che quando nella mia testa iperattiva si è affacciato il pensiero che mio figlio sarebbe stato africano, mi sembrava la cosa più naturale della terra.

Meno naturale la burocrazia che ha allungato di ben 3 anni la gravidanza dei comuni 9 mesi.

Meno naturale il fatto che tutto il mondo si facesse i fatti tuoi, anche su questioni piuttosto intime (che siccome sei intelligente, puoi intuire da sola/o).

“È stata una scelta”

Inutile dirti quante facce sgomente abbia visto al cospetto della mia sentenza: “Ma sai, è stata una scelta”.

Una scelta? Ma che sta a dì questa? (versione siciliana macomeècumminatachista) scritto sulla fronte della mia interlocutrice a caratteri cubitali.

Nemmeno chi di dovere se n’è fatta una ragione, figuriamoci gli altri, le mamme in prima linea. Nessuno credeva alla mia versione, credo che in tanti non ci credano ancora adesso.

Poi ci sono quelli: – “Uh, che bravi! Che bella cosa avete fatto!” – come se adozione internazionale volesse dire salvare il mondo.

Ma la frase più bella, eccola qui!

Sai, magari dopo l’arrivo del bambino, verrà naturalmente uno tuo”.

Ehhhhhhhhhhhhhh???????

Ci sono due cose che in questa frase tanto sentita, non capisco:

1) Intanto stai già decidendo che io non possa avere figli, il che oltre a non essere vero (ti ho detto che è stata una scelta!!!), è affare solo mio e di mio marito.

2) Perciò questo bambino non è mio? O non è mio abbastanza?

È femmina!

Di Catherine, perché poi è arrivata una femmina (ma sai, io il sesso non volevo saperlo prima), posso dire che se avessi dovuto scrivere come l’avrei voluta, non avrei potuto essere più precisa.

Catherine è mia figlia dal primo riccio sulla testa al mignolino del piede.

Quello che dice e che fa, come pensa, come si muove, i suoi desideri, la sua ironia, il suo broncio, la nostra telepatia, la sua fisicità nel dimostrare l’affetto, sembra che qualcuno l’abbia programmata per arrivare da me.

Tutte le volte che scrive di me è come se mi conoscesse meglio di chiunque al mondo.

Sa leggermi come nessuno ha mai fatto prima.

Mi guarda come non ha mai fatto nessuno.

Non so spiegare questa cosa con le parole, so solo che siamo fatte della stessa pasta.

E tutto questo io non lo sapevo prima di conoscerla, è stata una sorpresa continua, una sorpresa chiamata adozione internazionale.

Non sono diventata mamma, sono diventata la mamma di Catherine.

Poi un bel giorno mi ha detto: – “Mamma, sai che io penso che tu mi hai nato?” –

E io so per certo che quel 28 di agosto, quando lei, nei 50 gradi velati di smog all’aeroporto di Kinshasa, mi è corsa incontro, placcandomi con la forza che solo una bambina africana possiede, e buttandomi giù per terra in posizione fetale, quel giorno, senza alcun dubbio,“l’ho nata” io.

So che per molti resterò una povera mattaillusacredulona ma io invece ho questa strana sensazione che non se ne vuole andar via, che io e lei ci stavamo cercando e ci siamo solamente ritrovate.