Il nostro primo incontro

È strano perché io non ci pensavo più da un po’… a quell’incontro.

È stata la mia amica Maddalena qualche giorno fa, su twitter, a chiedermi di raccontarlo.

Oramai è diventato tutto talmente quotidiano e “normale” che pensare ci sia stato un primo incontro, oggi, mi risulta strano.

Eppure c’è stato. Ed è un ricordo molto vivido nella mia memoria.

Il nostro continuo incontro

Un incontro, il nostro, che racconta esattamente chi siamo

Io, lei e io e lei: un incontro al limite del comico.

Ci avevano detto che avremmo incontrato le bambine (eravamo due coppie) nella casa dove vivevano, perciò l’idea di scendere dall’aereo prevedeva un’unica preoccupazione: passare i controlli con tutti i documenti del caso e ritirare i bagagli. Il che non era una preoccupazione qualunque, visto che il paese delle nostre bimbe è la Repubblica Democratica del Congo, e l’aeroporto non era la Malpensa di Milano.

La pelle sudaticcia, le occhiaie profonde… e chi cavolo aveva dormito in aereo!

Insomma non certo l’aspetto curato che speri di avere all’incontro più importante della tua vita. Ma forse ancora allora non ne ero davvero consapevole.

Il piazzale davanti l’aeroporto era una vera bolgia ma era l’Africa. Ero già stata in Africa e quella bolgia l’avevo amata. Eppure questa volta dovevo stare attenta: non ero lì in vacanza, avevo una responsabilità.

Mi ricordo bene d’aver visto in lontananza due bimbe correre in mezzo a quella bolgia e ho cominciato a gridare: “Sono loro, sono loro”, senza che i miei compagni di viaggio se ne accorgessero.

Non è passato che qualche secondo e quello scricciolo di poco più di un metro mi ha buttato giù con un placcaggio degno di un campione rugbista.

Le valigie sparse per il piazzale, completamente rimosse dal cervello. In pochi secondi mi sono trovata con il gomito sanguinante, C. in braccio, con le sue gambe in mezzo alle mie, nella stessa posizione in cui le donne partoriscono.

Una strana coincidenza, vero?!

Primi giorni

Di quei primi giorni ho tanti ricordi, non soltanto di momenti passati insieme, ma soprattutto di emozioni, emozioni contrastanti. Il suo sguardo indagatore. La sua energia vitale che, per fortuna, non è mai scomparsa. Il suo metterti alla prova… continuamente.

Le mie paure in quei bagni pieni di zanzare, io che non avevo fatto la profilassi antimalarica. La sensazione di essere rifiutata e di aver fatto tutto quel percorso inutilmente.

Fino a quella notte…

Una delle tante notti insonni…

Esattamente come le neo mamme svegliate dai ritmi del loro bambino.

Una notte difficile, in cui camminavo per la casa buia, da sola.

Mi sembrava di impazzire.

Mi sembrava che tutta l’energia che avevo messo in questa cosa fosse stata vana.

Ero pronta a dichiarare la sconfitta, tanto ero stanca e provata.

Ma poi mi sono seduta, ho cominciato a recitare il mantra che recito tutte le mattine e le sere perché avevo bisogno di staccare la mente, di staccare da tutte quelle emozioni disarmanti.

E proprio lì, in quella notte buia, ho preso una decisione.

La decisione

Ho deciso che mi sarei presa tutta la responsabilità di questa storia, che lei era mia figlia, che era arrivata da me, non da un’altra donna, e che era venuto per me il momento di crescere e di accettare la mia maternità, io che madre nella vita non avevo mai desiderato esserlo.

Da quel giorno le cose sono cambiate. Ci sono stati altri momenti difficili, ce ne sono ancora oggi del resto, ma io e lei siamo diventate “noi”. E noi siamo diventate una squadra talmente forte che nessuna bugia, nessun ostacolo, nessuna incomprensione può scalfire.

Oggi siamo telepatiche. Ci serve solo guardarci negli occhi per capirci. Le parole sono quasi inutili. Oggi sappiamo entrambe perché ci siamo incontrate e, come dico spesso, se mi avessero chiesto di scrivere come pensavo sarebbe stata mia figlia, quello che avrei scritto non riuscirebbe ad eguagliare quello che lei è nella realtà.

Ho già scritto a lungo delle parole disarmanti che lei mi ha rivolto in questi quattro anni, parole che io ho cercato in molti rapporti della mia vita senza mai trovarle.

Parole che mi scrutano dentro, che comprendono la mia vita profonda.

E gesti come uno di qualche settimana fa… quando mi ha vista giù e mi ha abbracciata con la sua “incredibile” forza africana e mi ha detto:

Io sono qui per proteggerti. Non dimenticarlo mai”.

Poi pensi che sei tu la madre, che è il tuo ruolo quello di proteggere e lei se ne esce con queste parole che spaiano le carte in tavola.

Queste siamo noi

Quel primo incontro è lo specchio di quello che siamo ancora oggi e, probabilmente, di quello che saremo in futuro.

Lei, in maniera assolutamente inaspettata, ha ridato speranza a obiettivi che avevo messo da parte.

Mi ha mostrato che l’universo agisce in un modo tutto suo e che, se non è ostacolato dai nostri pensieri e dalle nostre paure e limitazioni, regala cose straordinariamente più grandi di quelle che la mente umana può cogliere.

Lei ha dato luce alle mie qualità migliori.

Ha permesso a me di vederle, a me che troppo spesso ho incontrato persone che non le hanno viste o le hanno disprezzate.

E oggi io sono di nuovo consapevole di chi sono e di cosa ho il potere di realizzare.

Quattro anni di te…

Dicono che siano le madri a insegnare ai figli a crescere. Ma di questo non sono così convinta.

Facile? No, come del resto non lo è per la madre che, dopo la fatica del parto, deve affrontare notti insonni e tempeste ormonali.

Io ho affrontato il tuo rifiuto che, per qualche giorno, sfiorava le corde del mio fidato pensiero: “Non sei nata per fare la mamma”.

Ero stanca ed emotivamente delicata per capire che era il tuo modo di mettermi alla prova.

Non ero pronta alla tua forza fisica, alla tua rabbia.

Nessun corso ti prepara a un esserino con un vissuto come il tuo.

I primi mesi era un costante lottare con quello che sentivo dentro e le interferenze esterne. Tutti erano grandi dispensatori di “Fai così”, “Prova questo”, “Si fa così”. Tutti, ci tengo a dirlo, mossi da affetto e dedizione.

E quel non capire come si possa scegliere di adottare prima di avere un figlio biologico…

Il perché io ce l’ho sempre avuto dentro ed era il mio desiderio di non farti sentire una “seconda scelta”.

Non mi è mai importato delle critiche, non mi è mai importato di chi ci avrebbe guardato pensando: “Non potevano avere figli loro”.

L’unica cosa di cui mi è sempre importato è che tu sapessi di essere stata voluta “indipendentemente” dalla possibilità di avere un figlio biologico.

Ancora oggi mi ricordo quel momento in cui ho pensato:

“Adesso decido io”.

quattro anni di te

I nostri primi 4 anni insieme

È stato come mettere un punto fermo.

Tu e io.

Fidarmi di quello che pensavo fosse giusto per noi. Tutto il resto via.

Da quel momento è cambiato il ritmo.

Tu hai smesso di mordere e calciare, io tornavo a respirare.

Da quel momento è iniziata la nostra storia di mamma e figlia.

Pochi giorni dopo la conferma. Eravamo in macchina, tu seduta sul seggiolo dietro, io al volante: «Mamma, ti voglio bene come il mare».

Poche parole, quel “Mamma” pronunciato dalla bimba che mi aveva dato del filo da torcere nei mesi precedenti, da una bimba che non era scontato mi scegliesse come madre, con quel mare che solo chi mi conosce nel profondo, sa quanto mi appartenga.

Quelle parole hanno dato fiducia alla mia decisione.

Era la strada giusta. Così è stato.

Da allora siamo diventate una squadra, indissolubile, forte e divertente.

Per te ho volutamente affrontato battaglie complicate. E le ho vinte.

Grazie a te ho conosciuto la mia forza, quella vera, quella che può stravolgere l’impossibile.

Sei tu che mi hai rivelato chi ero

Hai dato luce ai miei pensieri.

Hai risposto ai dubbi su me stessa.

Hai scrostato involucri di insicurezze.

Non sono mai stata, né lo sarò mai, una mamma tradizionale.

Adoro la tua indipendenza e la incoraggio. Sono innamorata della tua allegria e dell’importanza che dai al tuo essere femmina.

Mi hai insegnato tu com’è il pensiero femminile non sporcato da una società che mette i maschi sul piedistallo.

Non ho mai cercato di cambiarti e ogni giorno mi prometto di non farlo, perché non è affar semplice e il rischio di omologarti a me o a qualcun altro è altissimo. Ma ci provo.

Provo a seguirti, anziché spingerti a seguire me. Perché la strada dove mi porti è sempre più interessante di quella che conosco.

Quando mi dicono che deve essere stata dura, tutta quell’attesa, quella burocrazia, il paese, “certo, se fosse stata più piccola”… io non ricordo nulla di duro in quell’attendere. Forse quei primi mesi.

Il resto è stata solo una passeggiata primaverile in montagna, qui e là qualche salita impervia e un’immensità di fiori colorati.

Mi accompagnava una vocina che diceva che eri lì, da qualche parte, che eri il mio pezzo mancante ed era proprio così.

Con te sono completa.

Non è l’età, il sesso, il colore dei capelli ad avere importanza.

Non c’è un catalogo da cui scegliere se non quello della vita profonda.

– «Mamma, lo sai quanto ti ringrazierò da grande?»-

– «Perché, amore?»-

– «Perché sarai stata tutta la vita con me»-

Dovevi essere tu. Nessun altro/a.

Ammalarsi ai tempi delle mamme 2.0

La parola “ammalarsi” non è contemplata nel vocabolario della mamma 2.0.

Qualche giorno fa, la gnoma si era, per l’appunto, ammalata e io ero in piena crisi emotivo-organizzativa per la presentazione di Safari.

Dovevo arrivarci sana e salva, senza alcuna traccia di raffreddore o mal di gola.

Pensa all’autore che, con pathos e struggimento (ok, sto esagerando ma i poeti maledetti hanno sempre esercitato un certo fascino su di me), spiega la sua creatura tirando su col naso o strozzandosi per l’afonia.

Oh, my god, che tristezza!

Vai di training autogeno “Celapossofare, celapossofare, celapossofare”, vitamina C a gogò, echinacea e compagnia bella a combattere i suoi Etciù sparati direttamente sui miei orifizi facciali con la mira di un cecchino, abbracci moccicosi da mammahobisognodite e i tuoi tentativi di staccartene cercando di non compromettere il suo equilibrio psichico.

I microbi entrano nel corpo di Lui che dorme con la sottoscritta, il che comporta notti insonni pur di assumere costantemente posizioni opposte alle sue, con l’unico scopo di evitare contatti notturni indesiderati, e ti dici: “È tutto ok. Domenica è vicina e io sto bene”.

E lunedì?

Domenica va tutto alla grande ma lunedì…

(colonna sonora di Profondo Rosso in sottofondo)

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Lunedì il corpo cede inesorabilmente. Ti parla e ti dice: “Oh, bella! Mica sei super woman”.

E ti ritrovi con un gran bel casino da risolvere.

Ammalarsi in casa alcontrario

Ammalarsi? No, grazie!

Ti sei ammalata!

Questi sono i momenti in cui mi sento vicina alle Amiche di Fuso perché, pur non essendo expat, i 900 km di lontananza dalla famiglia rendono impossibile la telefonata: “Mamma, che hai da fare oggi? Avrei un certo bisogno di te”.

E va bene quel giorno (il primo) in cui ti senti stordita ma stai ancora in piedi; quel giorno (il secondo) in cui chiedi aiuto alla mamma dell’amichetta di turno perché ti prenda la gnoma da scuola; quel giorno (il terzo) in cui sei ottimista e ti ripeti: “Domani mi lavo i capelli”, e ne sono passati altri quattro; quei giorni che ti sembra passeggera e invece non passa più.

E poi arriva il giorno X (il quarto per la cronaca), quello stramaledetto giorno che non ce la fai neanche ad alzarti dal letto per fare pipì, che LUI è andato al lavoro e la gnoma è a scuola, che rimani stesa fino ad ora di pranzo ma poi, morta di fame, decidi che forse è meglio tentare di arrivare alla cucina.

Ammalarsi: l’umiliazione

Ti trascini lì con le movenze di un’anaconda, apri il frigo, poi la credenza, ti siedi mentre rimugini sul da farsi.

Ti dici: “Devo assolutamente mangiare qualcosa”, e alla fine, non hai altra scelta che ripiegare su di Lei, sì, lei, acquistata proprio per le emergenze, sigillata, nell’angolino dietro la farina:

la scatoletta di tonno!

Che poi si sa, è opinione dei più famosi nutrizionisti al mondo che la scatoletta di tonno sia digeribile come il brodino di pollo, quindi non ti lamentare se, dopo, passi il pomeriggio con un rigurgito perenne di olio in scatola.

Nel letto, da sola.

La depressione ti attanaglia e inizi a decantare l’ode vittimistica: “Sigh, però io ci sono sempre quando si ammalano quei due. Quando mi ammalo io, invece, non c’è nessuno che si occupi di meeeeee … sigh… sigh”.

Come da copione, lacrime a ripetizione e, in sottofondo, Celine Dion:

All by myself

Don’t wanna be

All by myself

Anymore”.

Cerchi di leggere un libro e dopo due pagine, ti convinci di essere dislessica. Provi a rispondere a qualche messaggio, ma il dito ti scivola giù in un nanosecondo. Alla fine ti accontenti di accendere la radio e dedicarti alla pratica spumeggiante dell’osservazione del soffitto. Yeah!

Lo specchio, no, su!

Quelle rare volte che (eppure lo sai che non è salutare) decidi di avvicinarti allo specchio, lui non può farcela e urla:

Viaaaaaa! Vai via, migra verso i lidi di trucco e parrucco. Solo allora potrai tornare da me”.

E con sguardo basso, torni, tapina, verso l’amato/odiato giaciglio.

C’è però quel momento in cui la gnoma ti mette una mano gelata sulla fronte bollente, tu le chiedi come mai le sue mani sono così fredde, e lei ti risponde: “Sono andata a lavarle con l’acqua fredda, così potevo rinfrescarti“.

Finalmente ammalarsi non è più un limite, non ti senti più sola e, motivata da tale gesto, ricominci a recitare il mantra:

#celapossofare

#celapossofare

#celapossofare

Robe da maschio e/o da femmina

Ordinario ménage familiare del weekend.

Gnoma: «Papà, non trovo la parola “inversa” sul vocabolario».

Lui: «Certo. Devi cercare il maschile singolare».

Questa affermazione apparentemente innocente (soprattutto quel “certo” categorico) nasconde una verità con la quale conviviamo tutte e tutti da secoli, senza neanche rifletterci sopra.

E allora prendiamoci questo momento e riflettiamo.

Robe da maschio e da femmina
Robe da maschi

Maschile. Singolare. L’uomo. Uno. Maschio.

Si potrebbe partire da quell’Eva nata dalla costola di Adamo che lo induce al peccato (qui cinicamente mi verrebbe da dire “menomale”, sennò pensa che palle la vita di sto’ povero omo!), ma non aprirò qui un discorso che tra psicologia e sociologia potrebbe essere lunghissimo.

Su queste pagine parlo della mia esperienza personale, semmai mi confronto.

Qualche volta quando l’argomento mi sta particolarmente a cuore, mi scaldo un po’.

E allora vogliamo parlare di quella stratosferica str**zata dei “Giochi per maschi e giochi per femmine”?

Di noi genitori che insegniamo ai bambini che rosa è femmina e azzurro è maschio (a mia figlia piace il giallo, cosa dovrei dirle? Che è da maschio o da femmina?)?

Sai che nei cataloghi svedesi di giochi per bambini non esiste questa differenziazione, che invece in quelli italiani è netta?

Robe da maschi o robe da femmine, quindi?

Volevo dire, per quelli che ancora non lo sanno (e purtroppo in questi ultimi giorni mi sono accorta che sono ancora tanti, troppi), che essere gay non dipende dai giochi con cui ci divertiamo da bambini/e. Perché allora io che ho sempre giocato con i maschi e che ho sempre scelto giochi da maschi, secondo i dogmi della società italiana, dovrei essere gay fino al midollo e invece, guarda un po’, sessualmente parlando, mi piacciono gli uomini.

Sono gay perché sono gay.

Per chi non è d’accordo: fatevene una ragione e state sereni!

Non ti ruberanno nulla, vogliono solo poter essere libere/i di amarsi e avere il diritto di sostenersi economicamente e giuridicamente come lo abbiamo noi “tradizionali”.

Gli sport da maschio e da femmina

Un’altra boiata pazzesca?

Ora io nella mia infanzia/adolescenza ne ho fatti parecchi di sport, pallavolo, atletica, e poi la danza mi ha conquistata. Si faceva fatica a vedere un maschio alla sbarra ma, quando ne arrivava uno, era un piacere e non soltanto perché all’epoca c’era il risveglio degli ormoni, ma perché l’uomo, biologicamente e fisicamente parlando, ha una muscolatura più potente della donna (la usasse solo per danzare anziché per menare…).

E vedere le piroette, i grand-jeté (per la cronaca, sono dei salti, non dei pasticcini francesi) fatti da uomini era davvero una goduria, senza parlare della possibilità di fare finalmente dei passi a due, che di solito facevamo tra femmine… immagina l’effetto visivo!

Ah, aspetta. Ne ho un’altra. Una delle domande che mi sento fare di più dagli uomini da quando è uscito Safari, è: «Ma è un libro per “donne”?».

Ora io chiedo alle donne: «Quando acquistate un libro, vi siete mai poste il problema che fosse roba da uomini“?».

Da sempre leggo romanzi, manuali di fai-da-te, libri sportivi, e non mi sono mai chiesta se l’autore fosse uomo o donna. Ma che me frega?

L’unica cosa che mi interessa è che mi dia qualcosa in termini di emozione, di nozioni, che mi permetta di capire meglio argomenti di cui so ancora troppo poco, che mi ispiri, che mi faccia usare la fantasia, che mi faccia riflettere sulla realtà oppure semplicemente che mi piace com’è scritto.

Non ho mai pensato “Questo l’ha scritto un uomo e quindi è roba da maschi”.

E quegli uomini che rifiutano un libro, uno sport, un gioco solo perché lo ritengono da “donne”, beh, mi fanno un po’ tristezza. Penso a quanto limitino il loro potenziale in questo modo.

Se lo ricorderanno che hanno anche una X tra i loro cromosomi?

Conclusione buffa di cose da maschi

Concludo con questa conversazione sul mio account twitter, avvenuta a seguito dei mei auguri di capodanno ad altre e altri blogger.

@donnaalcontr: «Buon Anno a tutte!».

@X: «Tutte, @donnaalcontr? E me che sono maschio, niente auguri?».

@donnaalcontr: «Caro X, quando si dice “tutti” di solito si includono anche le donne, io che sono alcontrario dico “tutte” includendo i maschietti».

@X: «Ahah, la risposta più bella del 2016»

Perciò se sei un uomo, non sentirti escluso esclusi se ti do della lei (inteso come femminile) perché a noi donne danno del lui da sempre e non ci siamo mai poste il problema.

E tu che ne pensi dell’argomento? Mi interessa sapere i pareri di tutte/i.

Una lezione al di là di ogni sospetto

Una lezione da mia figlia

Nel giorno in cui attendo Marty dal suo Ritorno al futuro (e lo attendo davvero, guardandomi intorno come se mi aspettassi di vederlo per strada da un momento all’altro), io che da fiera donnaalcontrario in quel lontano ’85 tutto mi sarei immaginata fuorché di diventare mamma, a 39 anni suonati imparo una lezione tutta nuova.

Per cinque settimane ho avuto pochi attimi al giorno, bronci sfuggenti tra bagno e cucina,  saluti fugaci sull’uscio di casa, baci rubati mentre dormiva già da ore.

I ricci informi perché Lui ha le dita troppo grandi (???) per incrociarle in un codino colorato…

I compiti affidati alla pazienza dei nonni piombati in aiuto della family al contrario

La tosse infinita, perché ha pensato bene di ammalarsi quando non ero disponibile a portarla dal pediatra…

I piedini (o dovrei dire piedoni) cresciuti tempestivamente questo mese che tra un po’ le vecchie sneakers si sarebbero trasformate in open toe

E io che non avevo neanche un briciolo di energia per sentirmi una madre degenere…

Una lezione che mia figlia mi ha insegnato

Confesso, non ce l’ho fatta!

Il mio lavoro di costumista, un lavoro che amo alla follia, che per anni è stato l’unico obiettivo della mia vita, un lavoro tanto meraviglioso quanto duro, che ti permette poche ore di sonno e non sempre tranquillo, quel lavoro mi ha completamente assorbito.

Sapevo che dovevo dare il 100% e l’ho dato, senza pentirmi neanche per un secondo, e con gioia perché oltre che un lavoro è la mia passione, e mi concede di incontrare persone eccezionali che voglio nella mia vita e a cui non posso e non devo rinunciare.

Un lavoro che ha un inizio e una fine certa.

Sapevo che il 10 Ottobre sarei tornata alla mia quotidianità.

E se in passato speravo che quel momento non arrivasse mai, questa volta avevo la consapevolezza che, sì, sarebbe stato terribilmente triste ma che dopo il 10 ottobre non sarei rimasta agonizzante nell’oblio del “non ho più ragione di vivere”.

Mi aspettava la mia vita, Safari e soprattutto Lei.

Una lezione da non dimenticare

Non avevo intuito quanto mia figlia avesse in me un punto di riferimento… e pure chiaro, solido.

E che senza quel punto di riferimento, tutte le sue fragilità, espresse anche con atteggiamenti scontrosi e, diciamolo pure, da grandissima “cagacazzo”, sarebbero emerse all’ennesima potenza.

Non avrei mai immaginato che perdere me, seppur per un tempo circoscritto (e ti assicuro, non lo dico per delirio di onnipotenza… anzi), volesse dire per lei perdere la direzione… quella direzione che pian pianino abbiamo costruito insieme negli ultimi tre anni .

In mezzo c’è stata una settimana che io chiamo di riallineamento.

Con scontri continui, fastidi reciproci, facce da “non ti sopporto più” ma…

… Quando domenica al cinema, aggrappate l’una all’altra, piangevamo all’unisono alla vista di Bing Bong (l’amico immaginario di Inside Out), che si sacrificava per la felicità della sua bambina, ho imparato la lezione e tutto si ricomponeva.

Di nuovo eravamo una squadra, forte, compatta…

Di nuovo comunicavamo solo con lo sguardo…

Di nuovo parlavamo di “cose da femmine”…

Di nuovo daje con gli scherzi da sceme incallite.

E forse quando alle h 16,29, appena uscite da scuola, ci imbatteremo nella DeLorean con Marty, Jennifer e Doc a bordo, le racconterò di un vecchio film dell’ ’85 e di una bambina che non sognava di essere madre e che oggi è fiera di esserlo di Lei.