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Adozione internazionale: il mio parto al contrario

Racconto di un’adozione internazionale al contrario.

Prologo

Afa romana di inizio Maggio. Io che annaspo in salita con le borse della spesa in mano.

Donna settantenne del quartiere che mi punta all’orizzonte. No, ti prego, non mi fermare.

– “Buongiorno, come va?” – Le mie braccia piangono in silenzio.

– “Bene, grazie, Lei?”-

– “Bene, bel tempo oggi, vero?” – Ma perché te devono chiedere sempre del tempo? Non lo vedi da sola? Basta alzare gli occhi al cielo.

– “Certo, adesso si vede che sei più felice” –

I miei occhi sgranati e la mente che si arrovella per capire madichestaparlando?!

– “Sì, adesso che hai la bambina”-

Ahhhhh… Ora capisco. E penso, quindi tutte le volte che m’incontrava prima, devo aver avuto una faccia tristissima perché invece oggi, con le buste della spesa piene e il sorriso forzato, mi vede TANTOOO felice.

Ecco arrivare un altro vecchietto con la macchina. Accosta e la saluta. Ringrazio la provvidenza e velocemente approfitto per scappar via.

– “Vabbè, allora vado. Buona giornata” –

Che poi però ho pensato: quindi una donna è felice solo dopo aver avuto un figlio? Prima è una specie di nulla in attesa di completarsi?

Adozione internazionale – Capitolo 1 (forse l’unico)



Ho sempre avuto fidanzati desiderosi di procreare, così tanto paterni.

Ma non erano le donne quelle che insistevano per avere figli? Anche in questo sono sempre stata alcontrario, ahimè!

Vogliamo parlare poi dell’orologio biologico? Ma che è? E soprattutto perché a me non è mai scattato?

Quando ero piccola, giocavo con le macchinine di mio fratello. Mi piaceva fare il portiere nelle partite di calcio dei miei amici, rigorosamente maschi.

C’era un’unica bambola che adoravo, la chiamavo Kuntaki, era nera come la pece e riccia come solo il riccio africano può essere.

Ci ho giocato e giocato e l’ho anche distrutta, non ricordo se le ho spezzato un braccio o una gamba.

Credo che mia madre l’abbia gettata in uno dei suoi raptus da buttoviaqualunquecosaincontrosulmiocammino. Uno dei grandi traumi della mia infanzia!

Beh, sta di fatto che quando nella mia testa iperattiva si è affacciato il pensiero che mio figlio sarebbe stato africano, mi sembrava la cosa più naturale della terra.

Meno naturale la burocrazia che ha allungato di ben 3 anni la gravidanza dei comuni 9 mesi.

Meno naturale il fatto che tutto il mondo si facesse i fatti tuoi, anche su questioni piuttosto intime (che siccome sei intelligente, puoi intuire da sola/o).

La nostra adozione internazionale “è stata una scelta”

Inutile dirti quante facce sgomente abbia visto al cospetto della mia sentenza: “Ma sai, è stata una scelta”.

Una scelta? Ma che sta a dì questa? (versione siciliana macomeècumminatachista) scritto sulla fronte della mia interlocutrice a caratteri cubitali.

Nemmeno chi di dovere se n’è fatta una ragione, figuriamoci gli altri, le mamme in prima linea. Nessuno credeva alla mia versione, credo che in tanti non ci credano ancora adesso.

Poi ci sono quelli: – “Uh, che bravi! Che bella cosa avete fatto!” – come se adozione internazionale volesse dire salvare il mondo.

Ma la frase più bella, eccola qui!

Sai, magari dopo l’arrivo del bambino, verrà naturalmente uno tuo”.

Ehhhhhhhhhhhhhh???????

Ci sono due cose che in questa frase tanto sentita, non capisco:

1) Intanto stai già decidendo che io non possa avere figli, il che oltre a non essere vero (ti ho detto che è stata una scelta!!!), è affare solo mio e di mio marito.

2) Perciò questo bambino non è mio? O non è mio abbastanza?

È femmina!

Di Catherine, perché poi è arrivata una femmina (ma sai, io il sesso non volevo saperlo prima), posso dire che se avessi dovuto scrivere come l’avrei voluta, non avrei potuto essere più precisa.

Catherine è mia figlia dal primo riccio sulla testa al mignolino del piede.

Quello che dice e che fa, come pensa, come si muove, i suoi desideri, la sua ironia, il suo broncio, la nostra telepatia, la sua fisicità nel dimostrare l’affetto, sembra che qualcuno l’abbia programmata per arrivare da me.

Tutte le volte che scrive di me è come se mi conoscesse meglio di chiunque al mondo.

Sa leggermi come nessuno ha mai fatto prima.

Mi guarda come non ha mai fatto nessuno.

Non so spiegare questa cosa con le parole, so solo che siamo fatte della stessa pasta.

E tutto questo io non lo sapevo prima di conoscerla, è stata una sorpresa continua, una sorpresa chiamata adozione internazionale.

Non sono diventata mamma, sono diventata la mamma di Catherine.

Poi un bel giorno mi ha detto: – “Mamma, sai che io penso che tu mi hai nato?” –

E io so per certo che quel 28 di agosto, quando lei, nei 50 gradi velati di smog all’aeroporto di Kinshasa, mi è corsa incontro, placcandomi con la forza che solo una bambina africana possiede, e buttandomi giù per terra in posizione fetale, quel giorno, senza alcun dubbio,“l’ho nata” io.

So che per molti resterò una povera mattaillusacredulona ma io invece ho questa strana sensazione che non se ne vuole andar via, che io e lei ci stavamo cercando e ci siamo solamente ritrovate.

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